Per comprendere che cosa veramente accadde nel Paese sudamericano negli anni del governo di Unidad popular, bisogna vedere tutte le quattro ore e mezza del film documentario, diviso in tre parti, di Patricio Guzmán, La battaglia del Cile

Non si tratta soltanto di una pregevole opera cinematografica, ma di un lavoro storiografico capace di sottrarre quella drammatica vicenda al compianto generalizzato che ne seguì, e dura tuttora, per via della crudeltà del colpo di Stato militare con cui si chiuse. Ci sono luoghi della terra nei quali si direbbe che lo “spirito del mondo” (per parlare ironicamente come Hegel) concentri per un periodo tutte le sue contraddizioni, e si diverta poi a dissolverle senza in alcun modo risolverle, lasciandole aperte alla riflessione postuma.

C’è da dire anzitutto che, quasi incredibilmente, il Cile di quegli anni offre l’unico caso di apertura di un processo rivoluzionario per via pacifica, sfuggendo al mito della insurrezione armata guidata da una ristretta élite (cosa che, a suo modo, era anche la prospettiva castrista-guevarista). A essere rilevante, nella esperienza cilena, fu la grande partecipazione democratica da parte delle masse popolari. Unidad popular non fu infatti una semplice alleanza elettorale di partiti di sinistra ma qualcosa che ebbe forti radici. Non ci furono soltanto delle “nazionalizzazioni”, cioè delle statalizzazioni, come per esempio quella delle miniere di rame (di cui al tempo il Cile era tra i massimi produttori mondiali); ci fu anche e soprattutto il passaggio all’“area sociale” di molte attività economiche sia industriali sia agricole, queste ultime anche attraverso l’occupazione delle terre. Le espropriazioni, le socializzazioni, avevano a volte una base legale e a volte non l’avevano: erano iniziative dal basso nel senso dell’autogestione e della costruzione di quel poder popular che avrebbe dovuto essere di appoggio e di stimolo al governo del presidente democraticamente eletto, Salvador Allende, e non la preparazione di un “dualismo di potere” che sarebbe sfociato nell’insurrezione armata secondo il classico schema bolscevico.

Fu un’illusione? Quante possibilità aveva questo processo, almeno sulla carta, di non fallire e non condurre a un bagno di sangue? Poche, ovviamente, nel contesto internazionale e nel clima della guerra fredda, con gli Stati Uniti che tramavano nemmeno troppo nell’ombra. Il lungo sciopero degli autotrasportatori, nel 1972, sostenuto finanziariamente dagli statunitensi, mise in ginocchio il Paese – eppure contribuì indirettamente a una crescita del poder popular, allo sviluppo dei “commando comunali” che organizzavano gli approvvigionamenti dei beni di prima necessità e anche il trasporto delle persone con i loro camion (si pensi che, nella capitale Santiago, ben il 70% degli autobus era in mano privata). I coordinamenti inter-aziendali, poi, programmavano la produzione e la realizzazione dei pezzi di ricambio, la cui mancanza era una conseguenza dell’embargo nordamericano. Pur tra enormi difficoltà, insomma, si videro all’opera la creatività e lo spirito di sacrificio di quelle zone della società che avevano nel governo e nei partiti di Unidad popular il loro riferimento.

Ma il quadro politico fu fin dall’inizio a dir poco impervio: quasi non consentiva spazi di manovra. Ciò dipese in primo luogo dal fatto che si trattava di un regime presidenziale tipicamente sudamericano, con l’elezione del presidente in un unico turno. Allende risultò eletto, ma Unidad popular fu sempre minoritaria in parlamento – anche quando, sei mesi prima del golpe, con il voto per l’assemblea legislativa (il Congresso), migliorò le proprie posizioni arrivando al 43%. L’opposizione di destra (la Democrazia cristiana e il Partito nazionale) aveva una maggioranza relativa, grazie alla quale, secondo la Costituzione, poteva bloccare le iniziative del governo e sfiduciare i ministri: cosa che fece a ripetizione. Con i due terzi dei voti in parlamento – cifra che però l’opposizione non raggiunse mai – avrebbe potuto costringere Allende alle dimissioni.

Nella sua famosa riflessione sul golpe, che comunque aveva non poche ragioni nello stabilire un parallelismo tra la situazione italiana e quella cilena, Berlinguer parlò di un 51% dei voti che non sarebbe stato sufficiente a governare un Paese. Tralasciò di sottolineare che la sinistra in Cile fu sempre lontana da quella maggioranza assoluta, sia pure risicata, e che il quadro complessivo consigliava di cercare appunto un compromesso (lasciamo stare se “storico”) con una parte dell’opposizione, segnatamente con i democristiani dell’ex presidente della Repubblica, Eduardo Frei. Questa strada fu effettivamente intrapresa da Allende: i governi con i militari all’interno furono fatti anche per facilitare il dialogo con una parte dell’opposizione; ma la cosa risultò impossibile a causa dell’intransigenza della Democrazia cristiana, che sempre più si andava spostando su posizioni filogolpiste (si pensi che, dalla sede del partito, in occasione di una manifestazione della sinistra, si era addirittura sparato sulla folla, uccidendo un operaio e ferendone altri sei). La radicalizzazione dello scontro, e una politica del caos per spingere Allende alle dimissioni, furono la strategia della destra. A quel punto una soluzione sarebbe stata quella di sciogliere di autorità il Congresso, basandosi anche su una parte di militari leali come Carlos Prats (ammesso e non concesso che questi sarebbe stato d’accordo). Ma Allende non volle una rottura del quadro costituzionale: preferì cercare di rafforzarsi con una proposta di plebiscito che avrebbe lanciato proprio l’11 settembre 1973, il giorno in cui si ebbe il colpo di Stato.

Qui interviene un’imponderabilità dovuta al fattore tempo. Un tentativo di golpe minoritario era stato rintuzzato alla fine di giugno. Si sarebbe trattato, da parte di Allende e dei dirigenti di Unidad popular, di cercare di fare in fretta al fine di evitare che l’opzione golpista ottenesse il consenso della maggioranza delle forze armate… (continua sul sito)


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