CREPE. A volte si fa fatica a riordinare le idee su quanto accade in Ucraina dopo la brutale invasione russa. In tal senso lo sfinimento fisico e morale che si avverte nell’opinione pubblica dal convivere con una contesa che sempre più assomiglia a una logorante guerra d’usura, non aiuta certo a vederci più chiaro. Dopo quasi due anni, il conflitto sembra entrato ormai in una fase di stallo che lo rende ancora più pericoloso e aperto a ogni esito. Insomma, di che far tremare le vene ai polsi. E non è finita. Al quadro già di per sé stracarico di incognite, si aggiungono ora le preoccupazioni su come continuare a sostenere Zelensky senza svenarsi. Al recente Consiglio affari esteri dell’Ue, volutamente convocato a Kiev, la capitale di una nazione che non fa parte della comunità europea ed è sotto il tiro nemico, la forte valenza del gesto, unita alla reiterata solidarietà con il popolo ucraino, come ci si aspettava è andata oltre il suo significato simbolico.
l presidente dell'Ucraina, Volodymyr Zelens'kyj
Purtroppo al di la delle riconfermate buone intenzioni, la quotidianità ha finito col riprendere presto il sopravvento, provvedendo con implacabile realismo a ricordarci quanto sia ancora attuale la frase secondo cui “c’est l’argent qui fait la guerre”. Già, i soldoni, che cominciano a scarseggiare. Infatti, tra un comunicato e l’altro, dagli Stati Uniti alla Slovacchia, si sono avvertiti, in contemporanea al summit, rumori inquietanti e crepe evidenti riguardo a quello che finora era considerato il comune, solidissimo fronte occidentale pro Ucraina. Gli aiuti costano miliardi, le casse sono quasi vuote, e nei budget, come ha dovuto amaramente accettare Biden per evitare lo shutdown, quei fondi sono stati stralciati. La qualcosa potrebbe costituire un vantaggio psicologico da non sottovalutare nella subdola, velenosa strategia del novello Zar per rovesciare i termini della questione e delle sue responsabilità nell’intera vicenda. L’aver riportato sulla scena lo spettro del suo mostruoso super missile nucleare è stata a tale proposito da parte del leader russo una mossa a dir poco diabolica.
FUGA. Chi bazzica le redazioni un giorno o l’altro se le trova davanti e finisce col chiedersi: “Ma come?! Ancora?!”. E non si tratta di cinismo. No. Ancora non sono finite le indicibili sofferenze dell’enclave armena del Nagorno-Karabakh, vittima delle tante, irrisolte eredità lasciate dallo sfascio dell’Unione Sovietica e dalle regole spietate della Realpolitik. Dopo più di trent’anni la questione della comunità etnica degli armeni è tornata di prepotenza alla ribalta della cronaca, dalla quale era sparita, per sancire di fatto la peggiore delle soluzioni con la sua scomparsa dal territorio che la ospitava.
Il Castello di Shahbulag (XVII secolo), costruito nel distretto di Aghdam da Panah Ali Khan Javanshir
Agnello sacrificale sull’altare dei cangianti equilibri geo-strategici tra Russia, Stati Uniti e Turchia, la popolazione armena non ha avuto altra va d’uscita che avviarsi verso un mesto esodo di proporzioni bibliche che ha coinvolto oltre centomila persone in fuga con le loro masserizie. Il triste scenario è la conseguenza dell’odio reciproco tra armeni e azeri, stratificato da secoli, e acuito da condizioni esistenziali divenute ormai insopportabili fino a sfociare in una vera e propria carestia. La paura atavica di una “pulizia etnica” associata all’emergenza energetica legata all’Azerbaijan, ricchissimo di risorse petrolifere e di gas, ha creato un intreccio d’incomprensioni e interessi contrastanti di una gravità senza pari. Ciò che sta praticamente escludendo ogni possibilità di istituire una pace duratura nella regione. Una volta ancora ci troviamo dunque di fronte a una vicenda altamente drammatica. I cui risvolti destano preoccupazione per il destino dei profughi armeni e confermano che alla fine, mutatis mutandis, chi deve pagare colpe non proprie sono sempre le frange più deboli e indifese della popolazione.


