Si è attenuata l'emozione per la morte di Giorgio Napolitano, presidente emerito della Repubblica. Alcuni commentatori (molti) ne hanno scritto bene o benis­simo, i fogli di estrema destra si sono scagliati contro la sua figura di statista "partigiano", l'informazione di sinistra-sinistra (e anche di quella conservatrice) ha posto accenti un po' freddini, o freddi, o addirittura biasimevoli sulla sua storia di "migliorista". Ma da dove viene questa parola?

I comunisti più veraci si opponevano aspramente ai compagni di partito, rei di aver perso la fede nel mito fondativo della Rivoluzione d'Ottobre, preferendo posizioni politico-sindacali volte, più realisticamente, a migliorare nel concreto la vita della classe lavoratrice italiana, senza promesse palingenetiche. Nacque così la parola "migliorista" – che fu il dileggio dei seguaci rivoluzionari di Pietro Secchia verso i riformisti del PCI, capeggiati da Giorgio Amendola. Oggi si dileggia di meno, ma in quei tempi i "rivoluzionari" erano ancora molto severi.

Il presidente Napolitano con Gugliemo Epifani nel 2006 (Archivio storico Presidenza della Repubblica)

Dal semplice binomio rivoluzione vs riforme discendevano in modo praticamente necessario concezioni contrapposte delle tattiche e delle strategie da adottare. Gli uni puntavano verso la "crisi del capitalismo" e la "conquista delle masse", senza troppo curarsi della "politica delle alleanze" che avrebbe potuto annacquare il vino verace del comunismo in compromissori tatticismi. Perciò l'epiteto "migliorista", come osserva sull'Avanti! Rodolfo Ruocco (leggi), rappresentava nel PCI un insulto cocente, «quasi un'imputazione di collusione con il "nemico di classe" (la borghesia) e con i cugini-avversari del Psi», partito candidato via via a sostituire i saragattiani del PSDI nel ruolo di bersaglio polemico quale simbolo del tradimento controrivoluzionario.

La narrazione rivoluzionaria – che poi, nel secondo dopoguerra, diventerà progressivamente appannaggio dei gruppi a sinistra del PCI e poi scomparirà di fatto dall'orizzonte politico italiano – rivendicava di poter sancire la propria netta superiorità. Una superiorità anzitutto morale, ma anche antropologica, perché essa prefigurava il famosissimo (nei tempi antichi, oggi meno gettonato) "uomo nuovo". E all'uomo nuovo non importava quanti milioni fossero i morti nei gulag perché era un'epoca in cui il fine giustifica i mezzi. Il mito della "purezza" ha spesso alimentato, e ancora talvolta alimenta, varie forme di settarismo, secondo la nota regola per cui ogni rivoluzionario puro viene presto affiancato da un rivoluzionario ancor più puro che alla fine lo epura. Detta così, sembra cosa da poco, se a ciò non fossero intrecciate – per commistione o per contrasto – le grandi tragedie del Novecento.

Storicamente, è un dato che la spaccatura tra riformisti e rivoluzionari abbia favorito, nei primi anni Venti, la "rivoluzione fascista". Ma le catastrofi causate dalla divisione a sinistra non si fermano certo qui, quanto meno nel nostro Paese. Dove, dopo la caduta di Mussolini e il referendum istituzionale del 2 giugno 1947, la neonata Repubblica italiana divenne ben presto una "democrazia bloccata". Perché il quasi-monopolio del consenso filogovernativo gestito da DC-USA-Vaticano si combinò con il quasi-monopolio antigovernativo gestito dal PCI e dall'URSS.

Il massiccio finanziamento sovietico del PCI fu tollerato dal nuovo sistema di potere. Esso favoriva un'opposizione roboante, ma impossibilitata a spendersi concorrendo al governo del Paese. Dopodiché, il veto USA non impedì al PCI durante tutto il Secondo Dopoguerra di esercitare un notevole potere di co-decisione nel Palazzo, senza per altro rinunciare ad agitare la rivoluzione nelle piazze, retaggio questo di "doppiezza togliattiana". Ed è in questo "spazio logico-politico" che si dipana l'attività di Giorgio Napolitano in quanto fautore di tutt'altra strategia, che consisteva, invece, nell'abbandonare Mosca in direzione del Patto Atlantico e di puntare alla trasformazione socialdemocratica del PCI. Una prospettiva alquanto futuribile e di là da venire, perché il partito di Via delle Botteghe Oscure rimaneva saldamente ancorato all'obbedienza moscovita. Nel secondo Dopoguerra, ai socialisti sembrava non restare altro che il seguente dilemma: o subalternità alla DC, oppure subalternità al PCI. E lungo questa faglia passò la divisione, interna al mondo socialista, tra i seguaci di Pietro Nenni, allineati a sinistra, mentre i seguaci di Giuseppe Saragat partecipavano al governo centrista a trazione degasperiana.

Poi, però, nel 1956, i carri armati russi invasero l'Ungheria (analogamente a quanto accade oggi in Ucraina). Né allora mancarono all'interno del PCI i fautori entusiasti dell'invasione, i cosiddetti "carristi". Altri, come Napolitano, subirono in silenzioso dissenso rapporti di forza interni sfavorevoli. Altri ancora – tra cui Antonio Giolitti, Loris Fortuna e Antonio Ghirelli – abbandonarono il partito per protesta ed entrarono nel PSI. Dove c'era ad accoglierli Pietro Nenni che ruppe con l'URSS fragorosamente – proprio mentre si accingeva ad avviare l'esperienza del primo Centrosinistra. Di lì i mitici anni Sessanta, che portarono con sé uno slancio di progresso a tutt'oggi ineguagliato nella storia unitaria.

Poi venne Craxi, che mirava a creare per il riformismo italiano uno spazio politico più consono e adeguato, sfidando sia la DC sia il PCI e liberando grandi energie di rinnovamento durante tutti gli anni Ottanta, ma finendo a sua volta sotto le macerie quando quelli iniziarono la loro controffensiva. E venne giù l'intero edificio della "Prima Repubblica".

La minoranza filosocialista del PCI (come pure i forlaniani e gli andreottiani nella DC) tentò di costruire un sistema stabile di alleanze insieme al leader socialista, ma alla fine Craxi fu sconfitto.

I "miglioristi" avevano nel frattempo iniziato una loro lunga marcia e, passo dopo passo, conquistarono l'intero PCI, che divenne Partito Democratico della Sinistra. E si deve non da ultimo a quest'area interna di dirigenti e intellettuali, guidata infine da Giorgio Napolitano, se "il partito di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer" seppe conservare parte cospicua dei propri consensi pur essendosi dovuto trasformare, lungo svolte abbastanza traumatiche, prima nel PDS di Occhetto, poi nei DS di D'Alema, fino all'attuale PD di Elly Schlein.

Oltre alla battaglia interna, che ha fruttificato seppur tardivamente, vanno ascritti tra i maggiori meriti di Giorgio Napolitano e della sua corrente migliorista: un forte europeismo di tipo marcatamente occidentale (in antitesi all'obbedienza orientale) e un'assoluta fermezza democratica, nettamente opposta sia alle velleità insurrezionaliste di Pietro Secchia in anni ormai lontani, ma anche alla deriva populista in atto fin dall'epoca della Grande Gazzarra seguita alla Grande Arroganza con cui i socialisti lanciarono la sfida della Grande Riforma, senza riuscire però ad articolare una strategia delle alleanze a essa proporzionata.

Insomma, se – e sottolineo il "se" – trentacinque anni or sono, durante quell'intorno di eventi che seguirono il crollo dell'URSS, le posizioni unitarie di Giorgio Napolitano avessero prevalso nel PCI e poi incontrato una sponda adeguata nel PSI, oggi non saremmo nella situazione miseranda in cui ci troviamo. Ma – e sottolineo anche il "ma" – la storia è un po' più complicata dei due monosillabi citati.


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