La Pattuglia Acrobatica Nazionale dell’Aeronautica Militare Italiana ha sede presso la base di Rivolto in Friuli. Le “Frecce Tricolori”, come sono meglio conosciute, sono molto “amate” da una fetta considerevole della popolazione e non mancano di colorare i cieli con le loro scie verdi, bianche e rosse in occasione dei più svariati eventi. Un po’ meno contenti sono gli abitanti dei paesi dislocati tra Udine e Pordenone, costretti a convivere quasi quotidianamente con le esercitazioni, l’inquinamento acustico che producono ed il cherosene sversato nei campi o sulle vigne.
Qualche tempo fa pensavo che sarebbe stato bello se, portando un piccolo ma significativo contributo alla lotta contro i cambiamenti climatici, le “Frecce Tricolori” avessero annunciato, di propria iniziativa, di voler sospendere le loro “esibizioni”. Ci sarebbe stato un motivo in più, per i loro appassionati e per le autorità pubbliche della nostra regione, per essere "orgogliosi" di dare loro ospitalità e sarebbe stato un gesto apprezzato anche da chi non si trova schierato tra questi.
Invece, mentre gran parte degli abitanti di Mortegliano e di altri centri del Medio Friuli, colpiti da una eccezionale grandinata alla di fine luglio, era ancora intenta a riparare alla ben e meglio i tetti danneggiati, dai quali continuava a penetrare acqua, la Pattuglia Acrobatica Nazionale “deliziava” con le sue evoluzioni i bagnanti assiepati sulla spiaggia di Grado e, solo qualche giorno più tardi, regalava un (non so quanto gradito) sorvolo tricolore di “solidarietà” alle popolazioni che avevano subito l’inedito “bombardamento” di ghiaccio.
Così ci troviamo, oggi, davanti alla tragedia di Torino, a parlare di quello che, prima o poi, sarebbe successo e a porci alcune domande.
Innanzitutto, come si può definire il tragico schianto di Torino? Ennesimo “incidente sul lavoro”? Si possono paragonare i piloti delle “Frecce Tricolori”, che hanno realizzato il “sogno” che hanno avuto fin da bambini, ai cinque morti della Stazione di Brandizzo o agli operai che cadono da un’impalcatura o muoiono asfissiati in una cisterna perché non si rispettano le norme di sicurezza? Probabilmente no.
Ancora. Quando capita una disgrazia sulle Alpi o in Himalaya si parla subito – sbagliando – di “montagna assassina”. Se in corrispondenza di un incrocio o di una curva pericolosa si verificano troppi incidenti, indipendentemente dalle loro reali cause, si scrive subito che le persone sono rimaste vittime, non della velocità, dell’abuso di alcol o di una distrazione, ma della solita “strada assassina”. Nessuno, però, ha osato parlare nella recente tragedia di Torino di “Frecce assassine”.
Certo, non c’era alcuna intenzione da parte del pilota di provocare quello che purtroppo è accaduto e sappiamo che ne resterà, inevitabilmente, a sua volta una “vittima”. Ma se le decine di migliaia di spettatori che partecipano entusiasti alle esibizioni delle “Frecce Tricolori” si mettessero questa volta nei panni di quella famiglia e di quella bambina che viaggiava ignara in auto e si è vista travolgere dai resti dell’aereo in fiamme, quale definizione userebbero? Parlerebbero solo di una semplice, “tragica fatalità”, come fece la Corte di Cassazione, al termine del processo conclusosi sette anni dopo che il caccia precipitato su una scuola a Casalecchio di Reno aveva provocato la morte di dodici ragazzi?
Molti giornalisti, come Salvatore Merlo, vicedirettore del Foglio hanno dichiarato, con un certo fastidio, che non intendono dare spazio alle polemiche sull’utilità degli “spettacoli aerei”, che vedono puntualmente contrapposti in un “derby” gli schieramenti politici. Altri, invece, hanno fatto sostanzialmente capire che non sarà certo per la morte di una bambina di nome Laura che si rinuncerà ad una ottima “vetrina” per la nostra tecnologia che viene venduta all’estero.
Bisognerebbe rileggersi le chiare parole della senatrice Lidia Menapace, bersaglio, qualche anno fa, di una vergognosa campagna d’odio per aver sostenuto che non è giusto che lo Stato finanzi manifestazioni in cui si esalta il “rischio per il rischio” e per aver ricordato che quei velivoli che ammiriamo durante le loro acrobazie sono dell’identico modello di quelli che vengono venduti e utilizzati da altri Paesi per colpire anche villaggi e gruppi di persone. Oggi direbbe che la piccola Laura e la sua famiglia sono rimaste paradossalmente vittime della “Difesa”.
Rimane un’ultima, amara constatazione da fare. Ci sono persone – pensiamo ai vigili del fuoco, ai volontari del soccorso alpino o a chi non esita a lanciarsi in un mare agitato per recuperare i migranti dai barconi che stanno per affondare – che rischiano la loro vita allo scopo di salvare quella di altri. E ci sono persone – i piloti delle “Frecce Tricolori” o quelli di Formula Uno, dei Moto GP o dei rallies automobilistici – che rischiano la loro vita mettendo spesso a rischio anche quella di altri.
Dei primi ci si dimentica sempre. I secondi, invece, sono spesso considerati degli “idoli” o degli “eroi”.
POSCRITTO 27/9/2023 - A una settimana dal tragico incidente di Torino, le “Frecce Tricolori” sono tornate a volare. Domenica hanno lasciato la loro scia colorata sui cieli di Trento e Bolzano e tra una decina di giorni torneranno a proporre evoluzioni in provincia di Savona. The show must go on? Ci siamo già dimenticati di quanto è successo a Laura di cinque anni e alla sua famiglia, investite dal velivolo precipitato vicino all’aeroporto di Caselle? È stata semplicemente una “tragica fatalità”? Anche loro, come i dodici ragazzi di Casalecchio di Reno che nel 1990 restarono vittime del caccia militare caduto sulla loro scuola, hanno avuto la “sfortuna” di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato?
POSCRITTO SUL 60.MO del disastro del Vajont - Lunedì 9 ottobre ricorre il 60°anniversario del disastro del Vajont. Quasi duemila morti, vittime, secondo l’“attendibile” direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti, di una "alluvione". Nel 2008 l'UNESCO ha definito questa strage il più grave "evento mondiale causato da responsabilità umana e impreparazione". E, da quest'anno, tutti gli atti e i documenti legati al processo che seguì sono entrati a far parte del "Registro della Memoria del Mondo", promosso dalla stessa UNESCO. È giusto e necessario ricordare e spiegare, soprattutto ai giovani, cosa accadde (e perché accadde) sessant'anni fa: le responsabilità dei tecnici, il ruolo dei politici e la inascoltata azione di denuncia svolta da una coraggiosa giornalista dell’Unità, Tina Merlin, partigiana, autrice in seguito del libro “Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe”.
Marco Lepre, Leg ambiente Carnia, Val Canale e Canal del Ferro
