La struttura del debito finisce sotto pressione a causa dell’aumento dei tassi d’interesse e della stagflazione. Che nasce dalla stagnazione economica quando si combina con l’aumento inflazionario dei prezzi.
A giugno 2022 si calcolava che il debito globale, pubblico e privato, fosse pari a 300.000 miliardi di dollari, cioè il 350% del PIL mondiale. Nel 1999 era di 200.000 miliardi.
Negli Usa il rapporto è del 420%, più alto di quello della Grande Depressione degli anni Trenta e dell’immediato dopoguerra. Simili percentuali riguardano tutte le economie avanzate. In Cina è del 330%.
I debiti in sé non sono un problema se servono a sostenere gli investimenti per lo sviluppo industriale e tecnologico. Il rischio si manifesta quando crescono in maniera sproporzionata e sono prevalentemente speculativi e sganciati dall’economia reale.
La crescita del debito ha colpito numerosi settori, come le famiglie, le imprese, le banche, soprattutto quelle cosiddette “ombra”, i governi e persino interi Paesi. In particolare i debitori chiamati “zombie”, gli insolventi, che sono stati mantenuti a galla dalla prolungata politica del tasso di interesse zero.
Da quando la Fed e le altre banche centrali hanno iniziato ad alzare i tassi d’interesse nel tentativo di stabilizzare i prezzi, gli “zombie” vedono il costo del loro debito crescere costantemente. A ciò bisogna aggiungere l’erosione dei redditi, dei risparmi e della ricchezza, immobiliare e mobiliare, liquefatta dall’inflazione.
L’ultima volta che l’economia mondiale ha sperimentato la stagflazione è stato negli anni Settanta. Allora, però, i tassi debitori erano più bassi. Oggi, invece, si potrebbe parlare di un rischio “choc da stagflazione”. Anche perché non si pensa di ridurre i tassi d’interesse per alimentare la domanda, le produzioni e i consumi.
Vi sono poi degli eventi geopolitici che hanno creato e continuano a creare choc negativi nell’offerta: la pandemia, la guerra in Ucraina, certe problematiche interne cinesi, ecc. Rispetto alla grande crisi finanziaria del 2008 e del periodo iniziale del Covid, questa volta non si potrà intervenire con salvataggi pubblici ai settori in difficoltà.
Il rischio è generalizzato.
Alcuni economisti americani, come il professore di Harvard, Kenneth Rogoff, già capo economista del Fmi, vorrebbero distogliere l’attenzione dalle aree di crisi negli Usa, dove, per esempio, il debito delle grandi imprese è diventato un enorme cancro, e dirigerla altrove. In particolare Rogoff vedrebbe bene il Giappone e l’Italia come focolai di crisi, perché, a suo dire, l’aumento dei tassi d’interesse renderebbe per loro sempre più difficile garantire il servizio sul debito pubblico.
Anche i Paesi emergenti sono sotto pressione, direttamente influenzati dalle politiche monetarie della Federal Reserve. Alti tassi d’interesse, un dollaro forte, la fuga di capitali, la svalutazione delle monete locali e l’inflazione stanno rendendo molto difficile la gestione del loro debito. “The Economist” ha identificato ben 53 Paesi vulnerabili che sono crollati sotto il peso del debito o sono a rischio di farlo. Non per caso la Banca Mondiale sostiene che il 60% dei Paesi emergenti o poveri sia diventato debitore ad alto rischio.
Poiché i governi non paiono intenzionati a tagliare i bilanci o ad aumentare le tasse per ovvi motivi sociali e politici, ancora una volta la patata bollente passa nelle mani delle autorità monetarie. Cresce perciò la richiesta che le banche centrali tornino a monetizzare i deficit. In altre parole: un ulteriore giro di quantitative easing!
Né mancano coloro i quali, invece, vorrebbero globalizzare gli ‘allargamenti’ monetari e finanziari facendo giocare un ruolo centrale al Fondo monetario internazionale. Pochi mesi fa il Fmi aveva emesso una montagna di Diritti Speciali di Prelievo, la sua moneta, equivalenti a 650 miliardi di dollari. L’intervento era stato abilmente presentato come necessario al sostegno dei Paesi più poveri… In realtà, all’Africa sub sahariana sono andati soltanto 32 miliardi! Perché la distribuzione è stata fatta in rapporto al PIL dei Paesi. Non è difficile indovinare chi ne ha beneficiato!
Le politiche attuali potrebbero, forse, posporre le crisi ma non evitarle. Troppa “immondizia” è stata nascosta a lungo sotto il tappeto. Non c’è la bacchetta magica per farla sparire. Ciò che, però, si potrebbe fare per avere una più adeguata gestione del debito è almeno l’introduzione di strumenti atti a contenere e a eliminare le varie forme di speculazione e di “leverage”, di leva finanziaria, che imperversano liberamente sui mercati.
