di Renzo Balmelli
BRUME. Due settimane per salvare il Pianeta e risparmiare all’umanità un invivibile scenario da “day after” ambientale. È piuttosto esiguo l’orizzonte temporale che il vertice del Cop27, riunito a Sharm el-Sheikh, affida agli esperti per rimediare ai disastri accumulati in anni e anni di inquinamento. In quei quindici giorni gli sherpa, i capi delegazione ed i funzionari delle Nazioni unite proveranno e mettere a punto un accordo che non rimanga carta straccia. Nonostante le belle parole, le premesse non sono delle migliori. I maggiori inquinatori nicchiano e l’impegno di riduzione delle emissioni per mantenere vivo l’obbiettivo del riscaldamento di 1,5 gradi si perde nelle brume di trattative che faticano a decollare. Tra siccità, carestie, alluvioni e uragani micidiali le condizioni di vita nei Paesi più vulnerabili non faranno che peggiorare senza l’adozione di misure drastiche. Nei lussuosi saloni del paradiso turistico sul Mar Rosso i passi felpati della diplomazia rendono ancora più acuto il contrasto con l’emergenza climatica che non ammette rinvii.
ADDIO. Da un po’ di tempo era meno sotto i riflettori ed aveva diradato le apparizioni in pubblico al punto da non presentarsi al vertice in terra egiziana. Protagonista di una mobilitazione ambientale senza precedenti, Greta Thunberg ha deciso di farsi da parte. Stanchezza, delusione o quant’altro: sono ragioni sue. A quattro anni dal suo “sciopero scolastico per il clima”, la “gretina” – come fu apostrofata dai suoi detrattori molto attivi nei ranghi della destra – esce di scena dopo essere riuscita a raccogliere l’adesione di milioni di giovani in tutto il mondo. Ma soprattutto dopo avere smosso le coscienze e scosso l’indifferenza di chi 
considerava la sensibilità climatica come un dettaglio marginale. Con lei si chiude probabilmente un’epoca che ha segnato la vita del nuovo Millennio in un campo che continuerà ad essere al centro dell’attenzione e che per i suoi contenuti non è riducibile a un semplice fenomeno mediatico. Per la protezione del clima non può esserci alcun “addio alle armi”.
DISASTRO. Nello specchio di mare già teatro di drammatici eventi, si sta consumando l’ennesimo capitolo della tragedia che vede quali protagonisti i migranti. Donne, uomini, bambini ridotti a semplici pedine sulla scacchiera di intollerabili speculazioni politiche ed elettorali a tutti i livelli. Addirittura inammissibile, in quanto aggiunge dolore al dolore, è la formula degli sbarchi selettivi nei porti catanesi; una definizione che mette i brividi e di cui il governo di destra si è avvalso per mostrare la “fermezza” promessa al Paese. In una situazione fuori controllo, dire che l’Italia non deve essere lasciata sola a gestire l’emergenza è quasi un’ovvietà. Nessuno lo mette in dubbio: il disastro umanitario è un fallimento collettivo di cui la comunità deve farsi carico. E l’Europa, che in questa sventurata vicenda non ha scritto una pagina memorabile, non può in nessun modo smarcarsi dalle proprie responsabilità. Non lasciare i migranti al loro destino privo di speranze e accoglierli senza pregiudizi è un impegno che non conosce frontiere e che ci riguarda tutti. Quei bimbi macilenti, quelle donne sofferenti, quegli uomini ammutoliti, pesano come macigni sulle nostre coscienze: SALVIAMOLI.
PACE. Caricare di ambiguità ideologiche le manifestazioni per la pace è il più stupido regalo che si potesse fare a Putin e il peggior servizio che si potesse rendere all’Ucraina invasa dai russi. Il primo non può che rallegrarsi per le divisioni che indeboliscono l’opposizione contro le sue mire feudali in un paese sovrano. Quanto alla popolazione ucraina è allo stremo delle forze di fronte agli sviluppi di una guerra sempre più feroce che ci ha condotto fino all’immane spettro dell’atomica. La pace non è in vendita al migliore offerente e neppure un bene per piazzisti della peggiore politica pronti a salire sul carro del più forte. Dalle macerie dell’Europa – scrive Repubblica – deve salire un grido “che coniughi il dovere della tutela umana al diritto della pacifica convivenza”. Subito, fin che non sia troppo tardi.
ULIVO. Nel suo romanzo Non dire notte (Feltrinelli, 2007), il celebre scrittore israeliano Amos Oz (1939-2018) aveva indagato i limiti e le infinite risorse dell’amore e della tolleranza. Con la consueta sapienza l’autore affrontava il tema della riconciliazione tra una donna e un uomo che seppure a fatica, riescono a trovare pace e comprensione reciproca. Riletto oggi quel testo potrebbe essere la metafora di un Paese e di un’intera regione sempre in preda a gravi conflitti. Dopo il ritorno sulla scena di Netanyahu grazie ai voti dell’estrema destra l’idea di “due popoli e due Stati”, caldeggiata da Amos Oz, ormai è finta in fondo a un cassetto. Al suo posto perdura l’instabilità che non è certo il miglior viatico per portare pace nella terra del simbolico ulivo.
BON TON. Da quando Giorgia Meloni è stata accolta a Bruxelles col dovuto rispetto, la destra non sa più che pesci pigliare. E con chi prendersela. Già erano pronti gli editoriali sui “sinistri” sobillatori della missione. Invece, mal gliene incolse. I sorrisi e le strette di mano, va da sé, non annullano le divergenze di fondo sui temi più sensibili che richiederanno non pochi sforzi per accorciare le distanze con Palazzo Chigi. E neppure sono stati cancellati i dubbi sull’indirizzo che prenderà l’Italia sovranista e dalla forte impronta identitaria scelta dal governo. Tuttavia la lezione di bon ton europeo ha zittito i cattivi profeti che cercano lo scontro con la Commissione, custode dei Trattati di cui Roma – non dimentichiamolo mai – è la storica culla.
NOZZE. “Marina, Marina, Marina / ti voglio al più presto sposar” – era un brano di Rocco Granata che fece furore negli anni Sessanta. Ma la Marina di Francia, ovvero Marine Le Pen, il suo sogno di convolare a nozze con l’Eliseo non è riuscita a coronarlo. Senza fiori d’arancio l’indomabile leader dell’estrema destra si fa da parte e lascia la direzione con un gesto che pone fine all’era dei Le Pen alla testa del movimento. Il testimone passa a Jordan Bardella di lontane origini italiane che a soli 27 anni prende in mano un partito dal dubbio profilo ideologico. Marine Le Pen ha cercato di “sdemonizzarlo” affrancandolo dall’ingombrante eredità fascista del “Front National”. Il suo intento però non è bastato per accreditare il “Rassemblement National” come una formazione di destra, ma repubblicana, e capace di battere Macron. Come la plasmerà il giovane Bardella dopo avere bruciato le tappe è la domanda che oggi tutti si pongono.
