Di seguito rilanciamo ampi stralci tratti da un importante saggio di Paolo Bagnoli apparso sul mensile “La rivoluzione democratica” da lui diretto. A trent’anni dal collasso della “Prima Repubblica”, Bagnoli ripropone la “questione del socialismo italiano”. Perché solo impropriamente essa poteva ridursi alla vicenda mediatico-giudiziaria di Bettino Craxi, mentre la storia e la cultura politica del socialismo rappresentano a ben vedere la vera forza della nostra democrazia. Di qui lo stato di crisi permanente cui assistiamo? Sul di esso incombe non solo il fatto che la questione socialista resta irrisolta, quanto soprattutto l’assenza totale di consapevolezza circa il rilievo che essa riveste per il nostro Paese.
La crisi del socialismo si manifesta in Italia con la sua totale assenza da quando il PSI è stato travolto dal personalismo del suo segretario. Oggi il problema non si pone ripartendo dal giudizio da dare sull’esperienza di Craxi e sull’efficacia della iniziativa giudiziaria che si scatenò contro il Partito. Non perché le malversazioni non dovessero essere perseguite e punite, ma per le modalità di natura punitiva che, esulando dal giudiziario, avevano una quasi esclusiva valenza politica; per come, intorno a tale iniziativa, si venne componendo tutta un’opinio politico-mediatica tesa a rappresentare il socialismo italiano per quello che non era, finendo per identificare in Craxi addirittura l’intera storia del socialismo italiano – che ha rappresentato, pur nella varietà delle sue stagioni, la vera forza della democrazia italiana.
Il problema del socialismo in Italia si pone gravato da una questione generale che riguarda il livello internazionale e da quella nazionale. È evidente a tutti che lo scioglimento della sinistra quale soggetto politico operato dagli eredi del PCI i quali, essendosi trovato ancora in piedi un pezzo del loro partito, potevano – e a un certo punto, con la segreteria di Massimo D’Alema nel PDS, sembrava che le cose andassero in questa direzione – rappresentare un polo ricostruttivo della sinistra dopo la fine del PSI e lo scioglimento del PCI.
Potevano, cioè, impostare una politica in tale direzione a condizione di riconoscere l’errore del 1921. E, pure, come se l’aver perso il treno passato nel 1956 avesse determinato una situazione che aveva oggettivamente impedito al socialismo di divenire quel grande soggetto di trasformazione profonda della realtà italiana quale forza centrale del nostro sistema democratico. Prevalsero altre logiche, altri indirizzi; in Italia i post-comunisti mai accettarono una scelta chiaramente – anche nominalmente – socialista, pur facendo parte, grazie al PSI, sia dell’Internazionale Socialista che del Partito del Socialismo Europeo.
Il risultato è stata la nascita del PD che non è riuscito a essere di sinistra - cosa impossibile peraltro se non si accettano i presupposti socialisti – né di vero centrosinistra nonostante le roboanti dichiarazioni di rappresentarsi come un partito “a vocazione maggioritaria”.
La ragione di tutto ciò è semplice e complessa al contempo, ma considerato che il PD non è mai riuscito a essere veramente un partito e a funzionare come tale, ogni scelta si è risolta in una “corsa sul posto”, sempre più a passo populista, fino alla sconfitta che ha permesso alla destra estranea alla natura costituzionale della Repubblica di avere un governo guidato dagli eredi contemporanei del fascismo italiano.
La fine del PSI e l’ostracismo della memoria sulla sua storia – un fenomeno non ancora passato – cui abbiamo assistito per oltre un trentennio non hanno, tuttavia, cancellato la questione socialista dallo scenario del Paese. Non tanto perché la sigla è rimasta in vitro per operazioni di natura strettamente personale (e, quindi, con un uso strumentale a fini del tutto diversi da quelli che essa avrebbe comportato), quanto soprattutto perché in vivo non hanno cessato di esistere i centri di presenza e, potremmo dire, di resistenza socialista nel Paese.
Né sono mancati, nei decenni trascorsi, tentativi che hanno cercato sul piano organizzativo di rimettere in piedi forme di soggettualità proponentesi di portare avanti il discorso per rimettere in piedi un qualcosa che cominciasse a colmare il vuoto verificatosi.
Parimenti dobbiamo registrare come tanti centri culturali di ispirazione socialista abbiano meritoriamente operato per tenere in vita non solo il ricordo di donne e uomini, ma il significato di una presenza politico-culturale. E, ancora, va registrato, sempre positivamente, come si siano intensificate le iniziative di natura pubblicistica con la riproposizione di testate di notevole valenza storica caratterizzanti la vita del socialismo italiano e pure si è assai cospicuamente intensificata la produzione libraria di storici e di compagni che hanno avuto funzioni dirigenziali nel PSI caratterizzando un mosaico. Anche se non pare essersi formata una rete, che sarebbe stata di grande utilità per cercare di mettere sui binari della storia presente il socialismo italiano.
I motivi di tutto ciò sono molteplici.
La ragione prima del perché una ricomposizione non sia avvenuta ci pare squisitamente politica, ma pure storica. Si trattava di fare seriamente i conti con una lunga vicenda, il cui bilancio, a nostro avviso, avrebbe un segno largamente positivo.
In secondo luogo, ed è il problema sovrastante tutti gli altri, per risolvere la questione socialista, non solo a livello italiano, ciò da cui tutto parte e che motiva le ragioni del socialismo è: che il partito che lo esprime ha un senso se si propone di superare il sistema del capitalismo, di operare quella rivoluzione nella libertà che permetta alla democrazia, oggi ostaggio del mercato e del mercatismo, di liberarsi con cultura ‘libertaristica’, di affermarsi ed espandersi per l’affermazione dei diritti e della giustizia sociale.
Solo così il socialismo ha un senso; se così non è non si vede perché si ritenga necessario un Partito socialista.
È evidente che ogni forza politica, per essere tale e stare nella lotta politica quale soggetto attivo, abbisogna non di ragioni fideistiche o, peggio ancora, sentimentali, ma di una salda cultura politica; di una ‘ideologia’, cioè, che dal piano delle idee sappia tradursi in azione e organizzazione, elemento di rappresentanza sociale, capacità di interpretare e rappresentare un blocco sociale quale piattaforma di riferimento primario, capacità di sapere che la lotta di classe prima che socialista è un’idea liberale se si considera il liberalismo non tanto un dato che riguarda le istituzioni quanto una concezione della civiltà che discende direttamente dall’idea fondante di libertà. E che, pur dentro un quadro dominato da trasformazioni profonde e da fenomeni nuovi che investono tutto il pianeta, la lotta di classe non solo non è un concetto superato, ma esso è ancora lo strumento primario.
Poiché quelle che una volta si definivano “classi subalterne” oggi sono alla mercé di un capitalismo finanziario mosso dalla prevalente logica dei profitti internazionalmente organizzati; dallo sfruttamento progressivo delle categorie più deboli quale metodo e sistema; insomma da un insieme intersecantesi di problemi che investono il mondo intero determinando una vera e propria crisi di civiltà.
Tale realtà mette a rischio le democrazie che ancora resistono e sono sotto l’attacco dei nazionalismi e dei sovranismi. Il prezzo più alto lo pagano coloro che si vedono impedita la possibilità di “andare avanti” e riscattare la propria posizione.
Un partito che si definisce socialista ha la funzione di mettersi alla testa di quest’opera di riscatto, forte di una cultura valoriale volta ad affermare una civiltà fondata sull’umanesimo; una civiltà che è a rischio di travolgimento venendo progressivamente meno gli argini della democrazia per quanto concerne i diritti e la stessa concezione della socialità che la giustifica. Perché la civiltà non ha una esclusiva valenza economica. Essa salva sé stessa se pone al centro l’uomo, la sua capacità di essere autonomo, libero di associarsi per combattere non solo per le fondamentali esigenze pratiche, ma anche spirituali. In altri termini: occorrono livelli che progressivamente si succedono, affermando e strutturalmente rappresentando la dimensione concreta della libertà.
Il refrain stanco del “riformismo” è un’espressione di impotenza e di povertà culturale. Occorre invece innestare – con metodo liberale che equivale a democratico – gli atti capaci di portare, con prassi ‘libertaristica’, alla costruzione, nella libertà, a una società sempre più giusta, a una vita della comunità ispirata alla socialità, a una concezione del potere che appartiene a tutti e a una organizzazione economica anch’essa fondata sulla libertà.
Non dimentichiamoci che tutte le libertà sono solidali e, quindi, non di tipo collettivistico, bensì socializzato. In quest’ottica, occorre tener fermo a ciò che deve spettare a chi intraprende o svolge lavoro salariato. E occorre tener fermo a uno Stato che garantisca in nome delle proprie ragioni la fondamentale funzione pubblica. E pare quasi un ossimoro affermarlo, in nome della sua primaria funzione di salvaguardia e di servizio ai cittadini, a fronte invece di un avanzato processo di riduzione dei cittadini a meri consumatori, senza contare le disfunzioni ataviche e le zone di confusione amministrativa proprie dello Stato italiano. Esso, paradossalmente, più che essere alleato degli italiani nella soluzione dei propri problemi si configura, e non poco, come un soggetto che si muove nella direzione opposta.
Questa è la tematica primaria che va affrontata se si vuole veramente cercare non di far rinascere il PSI ma di dar vita a un soggetto che, rispetto alla stessa storia del PSI, sia un socialismo nuovo. In tal senso, quanto ci viene dalla lezione rosselliana è veramente ancora di stringente attualità poiché il socialismo nuovo non può che essere un socialismo liberale.
Esso ha una configurazione ideologica diversa sia dal laburismo sia dalla socialdemocrazia. Si distingue dal laburismo, esperienza tipica del socialismo inglese, ove è il sindacato, ove sono le forze del lavoro che motivano un partito socialista. Ma si distingue anche da quanto si è venuto condensando nell’idea di socialdemocrazia, che esprime un socialismo nato dalla classe e che si risolve, a ben vedere, nella ricerca di un compromesso sociale con il capitale.
Non è, il nostro, un giudizio negativo, perché i meriti della socialdemocrazia europea, e pensiamo all’esperienza svedese o a quella tedesca, sono alti; la conquista del welfare ha rappresentato una grande affermazione di civiltà e di coesione, ma non certo avendo come obbiettivo il superamento del sistema, bensì la sua correzione.
Ciò non esprime poco, ma non risolve strutturalmente la grande questione di fondo. La specificità, poi, della storia italiana, a partire da come è nato il nostro Stato unitario e da quanto ne è derivato, rappresenta un terreno che richiede una diversa sostanza ‘ideologica’ dell’essenza del socialismo, fedele al presupposto che esso è, e non può che essere, turatianamente, una “rivoluzione sociale” (…). Continua la lettura sul sito > clicca qui
Paolo Bagnoli (Colle di Val d'Elsa, 1º giugno 1947) è uno storico e politico italiano. Professore ordinario di Storia delle Dottrine Politiche, dal 1987 al 1997 ha insegnato presso l’Università Bocconi di Milano e, successivamente, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena con sede in Arezzo. Vive a Firenze, dove dirige “La Rivoluzione democratica – Giornale socialista di idee e critica politica”.
