“Innovare l’innovazione per governarla”: uno slogan che fa comprendere il perché dell’insistenza di Xi Jinping sulla questione di Taiwan.
di Michele Mezza
Nella sua relazione di apertura al ventesimo Congresso, iniziato domenica 16 ottobre, il leader cinese, che si avvia a essere riconosciuto come capo in eterno, ha confermato questa priorità. Tanto più dopo la sonora lezione a cui ha assistito in Ucraina, dove il suo – sempre in maniera più fredda e distaccata – alleato Putin ha patito la superiorità sociale, prima ancora che tecnica, dell’uso delle intelligenze e delle memorie artificiali da parte dell’Occidente.
Il nodo che Xi Jinping ha posto nella sua secca relazione (la metà delle tre ore e mezza di cinque anni fa, segno che non ci sono più attriti da appianare) è proprio l’autonomia del Paese nello sviluppo tecnologico, che la Cina ancora non ha raggiunto, soprattutto nella produzione di chip ad alte prestazioni, che deve garantire a Pechino il rango di grande potenza oggi, e di Paese guida fra vent’anni. In questa logica, la nota dolente di Taiwan assume una valenza diversa dalle tradizionali rivendicazioni nazionalistiche.
Certo, proprio mentre chiede di essere equiparato al perdurante mito di Mao nella sua eternità al potere, Xi deve creare l’aspettativa di essere l’uomo che completa la fondazione della nuova Cina, che il grande timoniere proclamò il primo ottobre del 1949, integrando Taiwan. Ma con il pragmatismo che i cinesi riescono sempre a riempire con ispirate metafore globali, l’isola, più che rispondere alla storica rivendicazione di unità nazionale, diventa oggi la fabbrica di microchip a elevate prestazioni, che manca alla filiera tecnologica di Pechino. Una filiera che, come dicevamo, non è solo l’emblema di una potenza geopolitica, ma anche il tassello che oggi tiene insieme l’intera infrastruttura del potere statuale nel Paese più popoloso del mondo. Infatti Xi finora ha governato il processo di sviluppo economico, con l’inevitabile spinta centrifuga di forze che, acquisendo autonomia e ambizione individuali, spingono per avere spazio o comunque anche riconoscimenti a livello politico – sempre nel codice cinese, che separa l’influenza decisionale dalla rappresentanza istituzionale. Questo snodo – la differenza fra la possibilità di contare a livello territoriale, persino di influenzare le decisioni nazionali, e invece la rinuncia a farsi rappresentare autonomamente al vertice del Paese – che mise in crisi il tentativo di modernizzazione dell’Urss di Gorbaciov, è stato reso possibile in Cina proprio da quella versione di sviluppo tecnologico, che ha fatto coincidere il successo e l’emancipazione individuale, o aziendale, con il massimo di controllo e dominio da parte del partito.
Ora, i vertici cinesi sanno bene che la tecnologia, a differenza degli apparati industriali del secolo scorso, è una base “liquida”, per dirla con Baumann, un flusso e non un’infrastruttura, qualcosa che muta ogni momento, riconfigurando equilibri e primati. Per questo Xi deve costantemente innovare l’innovazione, dimostrando al mondo – lo ha detto esplicitamente nella sua relazione – “un altro modo per raggiungere lo sviluppo”.
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