A cent’anni dalla nascita e a quasi cinquanta dalla morte del Corsaro, la sua grande alleata di sempre, Dacia Maraini, ricorda Pasolini, straordinario protagonista della cultura europea, la sua intelligenza acutissima, la sua lucidità visionaria. Lo ricorda nel volume Caro Pier Paolo, vero successo di pubblico e di critica disponibile ora anche a nord delle Alpi in versione tedesca.

Questa settimana, nella “Sala blu” del Volkshaus zurighese, ho potuto ascoltare la Grande Dame della letteratura italiana, alla quale qualche tempo fa apparve in sogno un vecchio amico scomparso. Stava in piedi di fronte a lei Pier Paolo Pasolini (1922-1975): pietra dello scandalo, sorvegliato speciale della polizia morale italiana, poeta calciatore drammaturgo omosessuale scrittore assassinato in circostanze non chiarite. Lui nella realtà fu però tutt’altra persona rispetto a quell’immagine pubblica. Perché, nel ricordo di Dacia Maraini, Pier Paolo era stato ed è sempre rimasto un uomo mite.

Con quest’ultima fatica Dacia Maraini intende restituirci la dolcezza di quel regazzino per ciò che lui stesso era e voleva essere.

Non, dunque, del Pasolini Corsaro si tratta in “Caro Pier Paolo”, ma di un uomo buono cui era accaduto di “disinnamorarsi” del padre divenuto violento e deludente, per subito “innamorarsi” della madre maestra. A lei dedica la celebre “Supplica”


È difficile dire con parole di figlio

ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,

ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.

Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:

è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.

Sei insostituibile. Per questo è dannata

alla solitudine la vita che mi hai data.

E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame

d’amore, dell’amore di corpi senza anima.

Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu

sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:

ho passato l’infanzia schiavo di questo senso

alto, irrimediabile, di un impegno immenso.

Era l’unico modo per sentire la vita,

l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.

Sopravviviamo: ed è la confusione

di una vita rinata fuori dalla ragione.

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.

Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…


La madre di Pasolini, Susanna Maria Colussi, scrittrice ella stessa, fu una donna tragica. Pasolini la volle in veste di Madonna straziata per il Figlio ne Il vangelo secondo Matteo e fu un’interpretazione straordinariamente intensa (vedi la Passione dal minutaggio 2:03:00).

Susanna aveva partorito due figli, Pier Paolo e Guido. Entrambi assassinati. Il partigiano ventenne Guido “Ermes” Pasolini (1925-1945) cadde nell’eccidio di Porzûs. Fu un massacro “per mano fraterna nemica”, iniziato undici settimane prima della Liberazione. Durò dal 7 al 18 febbraio 1945, quando nell’Alto Friuli diciassette volontari della libertà aderenti alle Brigate Osoppo vennero fatti oggetto di una implacabile caccia all’uomo da parte di un gruppo di “gappisti” appartenenti al PCI.

Detto tra noi friulani, mio padre, all’epoca diciannovenne “osovano”, mi raccontò che in quelle settimane di fine inverno 1945 si doveva provvedere a un rifornimento di viveri e medicinali anche per il gruppo stazionato a Porzûs. Se così si fosse provveduto in quell’intorno di giorni, se mio padre si fosse trovato lì, io non sarei qui. E tutta questa infinita concatenazione di coincidenze che ti fanno essere o non essere, a me potrebbe apparire vertiginosa, ma anche ovvia.

Torniamo a “Porzûs”. Ho avuto la ventura di passare un mezzo pomeriggio di mezzo secolo fa con Giovanni “Vanni” Padoan, che guidò il commando della Divisione Garibaldi “Natisone” in quel massacro. Padoan, nel secondo Dopoguerra, fu condannato a trent’anni di reclusione, riparò in Cecoslovacchia e rientrò in Italia dopo essere stato graziato. L’ex comandante gappista mi disse che io non potevo capire: «Tu sei un giovane studente di sinistra nell’epoca del benessere, mentre noi eravamo come lupi, come un branco di lupi».

Negli anni Settanta, ai tempi di quei colloqui, mi capitò di parlarne con mio zio materno, Orlando “Ivan” Abate, estraneo all’eccidio di Porzûs, ma anch’egli commissario nella stessa Divisione Garibaldi “Natisone” operante tra Italia e Slovenia. Dopo la guerra si trasferì a Roma ed era ormai un pittore affermato. Ci trovavamo nel suo atelier quando me lo confermò: «Sì, eravamo come lupi», disse.

In realtà, c’era una direttiva ufficiale del PCI secondo cui tutti i partigiani operanti nell'Italia nord-orientale dovevano porsi alle dipendenze del maresciallo Tito. E chi non avesse appoggiato gli jugoslavi sarebbe stato considerato e trattato da nemico. Dunque, anche i titoisti, soprattutto loro, erano “come lupi”.

Non tutti, però, possedevano lo stesso istinto ferino. Un leader storico del PCI Mario Lizzero (“Andrea”) fu nettamente contrario alla strage di Porzûs: «È una decisione grave, un grave errore, perché è evidente che gli sloveni hanno cambiato la loro posizione sulla questione del confine e noi non dovremmo accettare la richiesta del IX Corpus».

Con il che si può finalmente comprendere per quali ragioni geopolitiche, in quell’inizio del 1945, i partigiani anticomunisti stessero accampati a Porzûs, presidiando il confine tra Italia e Slovenia: la guerra contro il comune nemico nazifascista non era ancora conclusa, ma già iniziava il contenzioso territoriale tra il CLN italiano e il IX Corpus jugoslavo. Allo stesso modo si possono intendere gli scopi politico- militari a causa dei quali i partigiani comunisti procedettero all’eliminazione minuziosa e implacabile degli osovani.

Solo molti anni dopo, nel 2001, Vanni Padoan definirà Porzûs un «crimine di guerra che esclude ogni giustificazione». Chiederà formalmente “scusa e perdono” agli eredi delle vittime del barbaro eccidio, puntualizzando però che la sua dichiarazione «l'avrebbe dovuta fare il Comando Raggruppamento divisioni "Garibaldi-Friuli" quando era in corso il processo». E aggiungerà, Vanni, con osservazione amaramente intrisa di realismo: «Purtroppo, la situazione politica da guerra fredda non lo rese possibile» (v. Rep. 18.3.2005).

E fu, dunque, in quel contesto di circostanze e di accadimenti ormai lontani che Guido “Ermes” Pasolini dovette morire. E fu, direi, con la mente rivolta al giovane fratello assassinato “per mano fraterna nemica” che Pier Paolo affidò alla madre il ruolo di Maria piangente ai piedi della croce.

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire

Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…

Questa “Supplica alla madre” con tanto di figura retorica autocontraddittoria chiude l’intera poesia all’insegna di un “aprile” che con quei puntini di sospensione finale allegorizza l’apertura a una speranza, forse, ma rassegnata.

Dacia Maraini sottolinea la speciale solitudine contro cui Pier Paolo impatta avventurandosi fino alla soglia tabù dell’amore – l’amore di corpi - con una donna. Questo non equivale ad asserire che PPP non potesse amare una donna. Amò Maria Callas e ne fu riamato. Ma non avrebbe potuto “violarla”. Perché con irrimediabile intensità lui sentiva che avrebbe “violato” la sua stessa madre.

Dopodiché la madre, in qualche modo, prenderà su di sé, e contro di sé, la Supplica a non voler morire. E così, alla scomparsa del figlio Guido dovrà sopravvivere. E di nuovo dovrà “non voler morire”, straziandosi per Pier Paolo. Anche lui ucciso.

Fu ucciso anche lui “per mano fraterna nemica”? Nessuno in coscienza potrebbe affermarlo, e men che meno chi, quella notte d’inizio novembre del 1975, lo assassinò.

Per il fatto di sangue viene processato un certo Pino Pelosi, all’epoca diciasettenne, che si autoaccusa quella stessa notte tra il 1° e il 2 novembre del 1975, sostenendo di avere agito in completa solitudine.

Al processo del 1976 il giudice Carlo Alfredo Moro (fratello di Aldo Moro) respinge la perizia di Aldo Semerari, un criminologo antisemita, legato agli ambienti della Banda della Magliana e dell’estrema destra italiana (il quale sei anni dopo verrà rapito, ucciso e rinvenuto in condizioni sulle quali stendiamo un velo di umana pietà). Pelosi è condannato per «omicidio volontario in concorso con ignoti». In concorso con ignoti… Il giudice Moro sottolinea in quella sentenza come «dagli atti emerga in modo imponente la prova che quella notte all'Idroscalo il Pelosi non era solo».

Perché nella lunga teoria di versioni, contraddizioni, ritrattazioni, narrazioni e ammissioni finali, Pelosi prima di morire (nel 2017) lo ha detto chiaro e tondo che la sua “confessione” era avvenuta per paura di subire sanguinose ritorsioni su di sé e sui propri cari. Sicché, in conclusione: sulla scena del delitto c’erano più persone. Probabilmente tre.

Questa la tesi di fondo, esposta da Dacia Maraini nella conferenza zurighese di lunedì scorso, analoga in ciò a tutte le altre presentazioni del libro che hanno avuto luogo durante l’anno in varie città occidentali e anche in rete.


Dacia pensò subito che quella storia, la storia di quel delitto, non poteva essersi svolta come da versione ufficiale. E in tutti questi decenni non è certo rimasta sola nell’assunto. Oltre al giudice Moro, giunsero alle medesime conclusioni molti autorevoli intellettuali, storici, scrittori e giornalisti (sebbene non manchino tesi e teorie su posizioni diverse).

Dal “Dossier delitto Pasolini” (Kaos edizioni, 2008) addirittura si apprende che non pochi erano stati gli abitanti delle costruzioni abusive esistenti in via dell'Idroscalo, dove avvenne l’omicidio, a confidare alla stampa di aver udito urla e rumori provenienti da ben più di due persone. E si sentirono le disperate invocazioni di soccorso da parte di Pasolini. E tutto porta in effetti a concludere che quella notte un gruppetto di bastonatori abbia ammazzato di botte il grande intellettuale. Eccoci alla storia sbagliata di cui cantava De André:


È una storia vestita di nero

è una storia da “basso impero”

è una storia mica male insabbiata è una storia sbagliata.


Nel sogno di Dacia Maraini da cui siamo partiti lui stava in piedi di fronte a lei. Che però, nonostante la situazione onirica, rimaneva ben consapevole del fatto che il grande poeta e amico era scomparso tant’anni or sono. E infatti lui esordiva concedendo qualcosa tipo: lo so anch’io che ero morto. Ma adesso…

Lei fa per toccarlo e l’ombra si dilegua. Resta soltanto un gilet color magenta, che si adagia a terra. Tenta di recuperare almeno quello. Però anche quello scompare. E allora non rimane che svegliarsi e iniziare a scrivere: “Caro Pier Paolo…”.

Dacia Maraini, Caro Pier Paolo, Neri Pozza, Milano/Vicenza 2022, pagine 240.


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