Palmiro Togliatti definiva Giustizia e Libertà: “Più uno stato d'animo che un'organizzazione”. E chi avrebbe mai potuto dargli torto? Risposta facile: la storia…

Palmiro Togliatti definiva con disprezzo Giustizia e Libertà “più uno stato d'animo che un'organizzazione”. Aveva ragione, nell'immediato. Ma la storia ha dimostrato quanto in realtà fosse in errore. È proprio lo stato d'animo il grande motore dell'evoluzione sociale ed economica, prima e ancor più dei bisogni. Un rovesciamento dell'assioma marxista-leninista che considerava ineluttabile il trionfo del proletariato con alla guida la propria avanguardia. Sappiamo bene come è andata a finire. E se in Italia i figli e i nipoti del Migliore hanno buttato alle ortiche le proprie bandiere cambiando, nel tentativo di non farsi riconoscere, vesti e nomi con la rapidità di un Fregoli, sulle macerie di quella che fu la Sinistra, spira, ancora e di nuovo, il vento azionista.

Ben diverso dai tentativi di scimmiottamento che affiorano qua e là per darsi una verginità ideologica non scalfita dal crollo del comunismo e dalla questione morale. Il socialismo e la libertà sono argomenti troppo seri per lasciarli nelle mani di chi non sa nemmeno bene cosa siano e ancor meno è in grado di dire come possano marciare assieme. E, soprattutto, non sono certo la cipria per imbellire e rendere tollerabile il capitalismo ma rappresentano la via di una rivoluzione non violenta per cambiare l'intero sistema.

Ecco, lo stato d'animo. Quello che nei primi mesi dell'anno scorso ha portato Paolo Bagnoli, e il sottoscritto, a rilanciare “la necessità del socialismo”. Un grido passionale. Un empito etico, psicologico, esistenziale ancor prima che ideologico e politico. I russi erano entrati in Ucraina mentre il mondo intero non aveva ancora finito di fare i conti con due anni di pandemia. Il coronavirus e i carri armati. Un doppio assalto, ai nostri corpi e ai valori di pace e di convivenza.

Le fragilità e le contraddizioni del sistema capitalistico non hanno retto l'urto. E a pagare, come sempre, i ceti più deboli. Un periodo fosco, un senso di angoscia e di impotenza. E in questo buio, la lucetta, la speranza, la convinzione, la fede laica. La necessità del socialismo, appunto.

Ha scritto Gaetano Arfè, a proposito del congresso di Genova del 1892: “Un uomo refrattario ad ogni misticismo come Gaetano Salvemini ricorderà il suo incontro con il socialismo come l'incontro con la fonte di una religiosità perenne, destinata a sopravvivere ai propri stessi dogmi “.

E Carlo Rosselli: “E' il liberalismo che si fa socialista, o il socialismo che si fa liberale? Le due cose assieme. Sono due visioni altissime ma unilaterali della vita che tendono a compenetrarsi e a completarsi. Il razionalismo greco e il messianismo d'Israele. L'uno domina l'amore per la libertà, il rispetto delle autonomie, una concezione armoniosa e distaccata della vita. L'altro una giustizia tutta terrena, il mito dell'uguaglianza, un tormento spirituale che vieta ogni indulgenza”.

Lo stato d'animo diventa imperativo etico e scelta di impegno. E quindi, nel pieno di una delle fasi più sconvolgenti che l'umanità abbia attraversato e che potrebbe portare al totale collasso della civiltà, si cerca di rimettere al centro del villaggio devastato l'albero del socialismo. Le cui radici sono l'uguaglianza, la libertà, la giustizia e il lavoro, che tutti accomuna e tutti riscatta.

Così siamo arrivati al documento sul lavoro scritto assieme a Giorgio Benvenuto. “Un manifesto per il riscatto, la dignità, la partecipazione”, l'abbiamo definito. Con un'affermazione centrale: “Sì, il mondo è guasto. Anzi, in agonia. E l'unica cura possibile è rimettere al centro il valore del lavoro, la sua etica, la sua valenza democratica, la sua capacità di fratellanza, la sua forza creatrice. La sua esigenza di giustizia e di libertà”.

Poi, come ruscelli che irrorano il tentativo di un nuovo scavo, ecco gli interventi ospitati dalla Rivoluzione Democratica. Belli, partecipati, intensi. Hanno fornito il loro apporto Maurizio Ballistreri, Andrea Becherucci, Ennio Ghiandelli, Enzo Marzo, Marcello Montanari, Salvatore Rondello, Vincenzo Russo. Lo stesso Paolo Bagnoli ha evocato “un nuovo umanesimo” rimarcando che “la necessità del socialismo non è uno slogan, bensì un'esigenza della storia che non vuole ricadere nella barbarie”. L'umanesimo socialista che torna anche nelle parole di Benvenuto.

Ora questi testi sono stati raccolti in un volumetto, a cura di Patrizia Viviani, edito da Biblion. Il titolo vale un programma: “La necessità del socialismo”. Gli inizi di un dibattito e la promessa di un comune agire. E il continuo peggioramento, senza apparente soluzione di continuità, di tutto il contesto politico, economico, sociale non fa che rendere ancora più cogente il nostro impegno.

La guerra in Ucraina prosegue con morti e macerie e l'invocazione della pace ormai risuona solo nelle preghiere di Papa Francesco. Il bellicismo impera e l'incubo di un conflitto nucleare è diventato una realistica possibilità. A differenza del passato, non sembra esserci quella mobilitazione internazionale capace di mettere un argine al rischio di uno scontro apocalittico. Come se una sorta di cupa rassegnazione stesse obnubilando l'umanità.

I poveri aumentano sempre più mentre i ricchi vedono crescere a dismisura i propri patrimoni. Diseguaglianze, sfruttamento, precarietà, disoccupazione. Il Coronavirus sembra domato ma gli esperti temono che una ancora più devastante pandemia, The Big One, possa arrivare senza preavviso. E intanto, sconvolgimenti climatici, siccità, alluvioni.

In Italia, governa la nuova Destra. Becera, razzista, pericolosa. Intrisa di fascismo. La fiamma che fu del Msi arde a Palazzo Chigi. Che fare? (…)

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